Primo portone a sinistra, seconda scala, terzo piano, interno quattro, suona al secondo campanello, non al primo, perché al primo trovi solo uffici – disse la voce del portinaio, in inglese, ad Amye Nefrasca che ascoltava si, ma come se quelle parole venissero da un altro posto dell’universo. Era stanca, tipo che non dormiva da due giorni, e il suo corpo e i suoi occhi glielo ricordavano passo dopo passo, ma la sua mente non aveva voglia di dormire, no per niente, affatto. Le piaceva questa cosa qui delle ruote che girano e delle gambe stanche che macinano chilometri nonostante tutto: sempre sulla strada, come quel libro di Kerouac che aveva consumato a furia di leggere e rileggere. E le piacevano pure le camere d’hotel, le piaceva sostare in quelle camere perché erano tutte uguali ed era in tutto quel marasma di uniformità che lei riconosceva se stessa, la sua diversità, la sua unicità, le forme astratte del suo animo. Ogni tanto, in quelle camere, riusciva anche ad amarsi, a guardarsi con occhi diversi, con gli occhi di chi sa che in fondo a che cazzo serve avere paura di non sentirsi mai abbastanza per qualcosa o per qualcuno, tanto siamo tutti unici, unici e irripetibili, e dobbiamo dare quello che possiamo e quello che sappiamo senza avere paura di varcare nuove soglie, di farci trasportare in qualche nuovo posto, in qualche nuova canzone, qualche nuova strada. Aveva questa tradizione: una doccia e poi sul letto, con solo l’asciugamano addosso e i capelli bagnati che faceva asciugare così, liberi. Era una cosa che non faceva mai a casa sua, questa cosa di starsene sul letto, dopo la doccia. C’era sempre una cazzo di fretta che non le lasciava il tempo per guardarsi per bene, per quello che era davvero. Smetteva di avere paura, in quelle camere, di tanto in tanto, ma non durava mai abbastanza, perché poi, abbandonati gli specchi di quelle stanze uguali per tutti, lei perdeva la capacità e la razionalità di sentirsi unica, unica e irripetibile. C’era qualcosa di vero e di così dannatamente sincero nei luoghi che non erano di casa ed era in quei luoghi che Amye, tra una strada sbagliata, un bicchiere di troppo, la spensieratezza del “tanto che cazzo me ne frega” si sentiva a casa davvero. Che forse nessuno l’avrebbe mai capito e a lei nemmeno importava essere capita, voleva solo essere, e diamine, era, era sul serio: era il più vero riflesso di sé stessa, con tutti i se, tutti i ma, tutti i pregi e tutti i difetti. Non gliene fregava niente di non essere abbastanza per qualcosa o per qualcuno, perché tanto lei era Amye, Amye Nefrasca, e sapeva bastare a sè stessa. E allora, non potendo staccare un pezzo di specchio fotografò con la mente il suo riflesso dei giorni sulla strada e iniziò a portarselo in giro, a tenerselo stretto, per ricordarselo ovunque che lei era lei, ed era lei semplicemente per quello che era, ed era lei con quello che poteva fare ancora per sentirsi più forte e più adatta, nella sua composizione astratta e complessa, era lei, basta, ed era così perfetta e imperfetta allo stesso tempo da essere unica, unica e irripetibile.