Immaginate una mattina di svegliarvi, di scrutare il cielo per captare il meteo e vedere solo polvere. D’istinto, credo sia abbastanza normale, uscireste dalle porte di casa, mettereste il naso fuori dalle vostre finestre o i piedi fuori dal vostro balcone, convinti di vedere il solito scenario, quello a cui ormai siete abituati da tempo. Fuori però, quel paesaggio che a tratti vi ha dato certezze e in altri magari vi ha fatto venir voglia di fuggire non c’è più. Polvere e detriti, solo questo.

I panni stesi il giorno prima e lasciati ad asciugare sono pieni di polvere, quel negozietto da cui compravate sempre la vostra pietanza preferita non c’è più, persino la strada che avete percorso ogni giorno è irriconoscibile. Immaginate questa scena e toglietele il muto: perché alla polvere, allo sgomento, ai detriti si aggiungerebbero lamenti, tanti lamenti e urla. C’è chi piange, chi grida, chi ha paura, chi quella paura prova a soffocarla per farsi forza, per dare supporto. C’è chi soccombe, chi resta immobile, chi non riesce a fare nulla. Qualcuno non ha capito nulla di quello che è successo, qualcun altro lo sta comprendendo adesso, ma non c’è tempo per informarsi, bisogna agire e bisogna farlo in fretta, perché non si può sapere se sarà possibile rimettere tutto a posto prima che accada di nuovo e comunque, in ogni caso, bisogna cominciare a scavare, perché alcune delle urla, quelle più ovattate, vengono da un luogo che sembra lontanissimo. L’unica consapevolezza, in quel momento è questa: c’è vita sotto i detriti e bisogna preservarla il più possibile, lasciando indietro quella normalità che è stata brutalmente messa in pausa per via di qualcuno che, senza permesso, ma con prepotenza, l’ha interrotta.

È così che immagino di svegliarmi in un giorno in cui, a casa mia, è arrivata la guerra. Ed è così, forse anche in maniera più brutale, che credo sia siano svegliati, se mai hanno avuto modo di addormentarsi, i popoli che oggi la guerra la stanno vivendo. Sia chiaro, non mi sto riferendo ad un conflitto specifico: la guerra è guerra. E al momento, almeno secondo i dati dell’Uppsala Conflict Data Program (UCDP), un programma di ricerca sui conflitti realizzato dall’Università svedese di Uppsala, nel mondo sono in atto oltre 170 conflitti. Molte volte però non lo sappiamo, finiamo per parlare solo delle guerre che conosciamo, quelle di cui si parla in un momento storico preciso. Oggi si parla di nuovo e tanto del conflitto Palestina-Israele, ieri si parlava tanto di Ucraina-Russia. Ma di guerre, ahimè, ce ne sono tante. Le immagini che spesso scorrono sono simili in ogni luogo in cui è in corso un conflitto. C’è solo distruzione, c’è paura, c’è sangue. Non c’è tempo per pensare, per vivere, bisogna sopravvivere ad ogni costo e bisogna trovare la forza di scavare a qualsiasi condizione, bisogna trovare la forza di arrivare alla fine del giorno, anche se poi, tra la luce del cielo del mattino e quella del cielo notturno non c’è alcuna differenza, se non nei colori, perché il tempo non ha confini. La guerra è guerra ad ogni ora, non c’è tregua. E quando ti strappano così dalle mani qualcosa che fino a poco tempo prima credevi ti appartenesse, non puoi fare altro che trovare modo di fuggire.

Oggi, sinceramente, qualsiasi cosa io faccia mi sembra banale rispetto a tutto questo, qualsiasi gesto relativo alla mia sopravvivenza, i miei problemi personali: nulla ha senso, rispetto alle immagini che scorrono quotidianamente a cui non riesco a restare indifferente. Non voglio soffermarmi sui dati precisi che riguardano i conflitti in atto, voglio soffermarmi però sull’atto della guerra. Mi fa “sorridere” pensare all’etimologia della parola guerra, dal germanico werra ‘mischia’, diverso da “bellum” che invece, dal latino, rimanda proprio al “bellicoso” e dunque all’atto del fare la guerra con le armi. Ma, senza andare troppo oltre voglio pensare alle accezioni positive della parola “mischia”. Penso al mix, penso a tante persone insieme, nello stesso luogo e la guerra, così come l’abbiamo “imparata”, cambia del tutto significato. Sto dicendo questo non in preda a un qualsiasi pensiero quotidiano, ma perché è importante comprendere che molti dei significati che attribuiamo alle parole sono stati dati da noi, proprio da noi esseri umani. A un certo punto, nella storia, per quanto riguarda il termine guerra, ha prevalso l’impronta barbarica, quella che al termine guerra ha affiancato immagini di distruzione, armi, invasioni. Mi chiedo dunque perché, perché quell’impronta germanica, quella della “mischia”, si è persa. Sempre ammesso e concesso che l’accezione fosse positiva, io così me la sto immaginando.

Il fatto è che, alla fine di tutto, siamo noi a decidere. La guerra la fanno gli esseri umani, nessun altro. E  sono gli stessi esseri umani che potrebbero scegliere di smettere di farla. Ogni giorno mi sveglio e mi chiedo perché sia necessario fare la guerra per ambire alla pace. Ogni giorno mi sveglio e proprio non riesco a comprendere come mai, noi che siamo animali sociali e siamo dotati del potere della parola, pur essendo umani, umani non lo siamo per niente. Ogni giorno mi sveglio e mi chiedo perché sia necessario distruggere per prevalere, quando basterebbe mischiarsi gli uni agli altri, convivere, coesistere, senza dove per forza spodestare qualcuno per ottenere un lembo di terra. Mi rendo conto non sia facile, mi rendo conto che dopo secoli di guerra intesa come “bellum”, sia difficile. Ma allo stesso tempo spero, sul serio, che le cose possano cambiare. E poi mi soffermo ancora e immagino di svegliarmi così come si svegliano tanti popoli, penso di non essere così tanto lontana da certe dinamiche, penso che siamo tutti complici nel momento in cui andando avanti con le nostre vite ci dimentichiamo di quello che accade non molto lontano da noi. Penso a tutte le volte in cui per alcuni è facile cedere in balia del pregiudizio e discriminare chi arriva qui dopo aver lottato notte e giorno per sopravvivere, chi arriva qui in cerca di una vita migliore, dimenticandosi che al loro posto potremmo esserci noi, perché quella follia, la follia della guerra, non è estranea al modo di agire delle nostre istituzioni che, anche se seduti sulle loro poltrone, partecipano a questo meccanismo, a volte inviando armi, altre volte non facendo assolutamente nulla, ne per quei popoli, ne per chi fugge e arriva da noi chiedendo aiuto, a volte schierandosi, dimenticando che al di là delle ragioni per cui un conflitto è nato, al di là di chi è la vittima e chi è il carnefice, la guerra è guerra e va fermata, punto, anche perché, alla fine, non muoiono mai i potenti, loro muovono le pedine seduti comodi dietro gli schermi, sicuri e protetti.

Ecco, immaginate una mattina di svegliarvi, di scrutare il cielo per captare il meteo e vedere solo polvere. D’istinto, credo sia abbastanza normale, uscireste dalle porte di casa, mettereste il naso fuori dalle vostre finestre o i piedi fuori dal vostro balcone, convinti di vedere il solito scenario, quello a cui ormai siete abituati da tempo. Fuori però, quel paesaggio che a tratti vi ha dato certezze e in altri magari vi ha fatto venir voglia di fuggire non c’è più. Polvere e detriti, solo questo. Non c’è più nulla, nulla di nulla e la vostra vita, che prima credevate fosse realmente vostra, non vi appartiene più.

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