Quasi tutte le fotografie, eccetto una, sono di Fabrizio Fanelli.

Di Francesca Emilio, Bari – Il tricolore della bandiera italiana addosso, pomodori maturi, sangue finto, cartelli su cui scritto rosso su bianco un messaggio nitido e sentito. E’ la scenografia della lotta di Diletta Bellotti, 24enne romana che ogni giorno accende i riflettori su una realtà di cui si sente parlare davvero poco, ma è vera, tangibile e accade non molto lontano da noi, nelle campagne che circondano i paesaggi dei luoghi in cui viviamo, anche in quelle della nostra regione. Pomodori Rosso Sangue, questo il nome della campagna d’informazione che Diletta porta all’attenzione, sui social e per le strade.  Si tratta degli invisibili del caporalato, italiani e stranieri che vengono sfruttati ogni giorno, lavorando in sicurezza precaria e in assenza di quei diritti che dovrebbero essere garantiti ad ogni essere umano. Diletta a questa realtà ci si è avvicinata dopo la morte della madre di un suo amico pugliese; quella donna, di cinquant’anni, che lavorava nei campi sotto un sole bollente da quando aveva dieci anni. Da allora Diletta ha iniziato ad informarsi, a studiare e dopo, con un master in Diritti Umani e Migrazione Internazionale conseguito a Bruxelles con una tesi sul movimento dei Braccianti di Boncuri nel 2011, è iniziato il suo percorso che l’ha portata a volersi interfacciare realmente con le condizioni di vita dei braccianti, per conoscere la loro quotidianità, affacciandosi su quella finestra che spesso sembra così distante, invece finisce sulle nostre tavole quasi ogni giorno. Ma andiamo per gradi: era il 2019, un anno fa, è allora che Diletta ha incrociato la nostra terra, la Puglia. Tra gli alberi d’ulivo e la terra rossa di Borgo Mezzanone, nel foggiano, c’è rimasta un mese, non per divertimento, non per ferie: un mese, esattamente da maggio a giugno, in cui ha dormito nel retro di una bottega di generi alimentari, nelle baracche, svegliandosi prima dell’alba ogni giorno per lavorare duramente. Un mese in cui ha potuto vedere con i propri occhi e sentire sulla propria pelle la rabbia e la frustrazione dei braccianti. Quell’esperienza le è servita molto, le si sono rinforzate le ossa, ma anche l’animo e con tutta la forza e le energie delle persone incontrate, subito dopo aver chiuso questa parentesi e aver capito molti retroscena legati al fenomeno, si è buttata a capofitto nella sua lotta portando avanti la protesta. Roma, Milano, Bologna, Napoli, Torino, Firenze sono solo alcune delle città nelle quali, nel suo vestito tricolore, circondata da #pomodorirossosangue ha cercato di sensibilizzare i passanti. L’intento della sua lotta è quello di attirare l’attenzione sul fenomeno: far capire che esiste, che anche se non se ne parla tanto come si dovrebbe ci sono persone che vengono sfruttate ogni giorno, persone, donne e uomini, che muoiono di lavoro e lo fanno per sopravvivere, per garantirsi quel minimo necessario che serve a barcamenarsi nella realtà quotidiana. Lo fanno però senza ricevere alcun diritto di base e venendo trattati senza dignità alcuna. Ed è di quel pomodoro rosso sangue che si sporcano le nostre tavole e le fauci della gente che, consapevolmente o inconsapevolmente, alimenta quel mercato comprando da botteghe e supermercati che sfruttano quella manodopera potendo acquistare a prezzi ridotti la merce. Le reazioni, tra la gente, non sempre sono state positive: Diletta è stata molto criticata: per il suo modo di vestirsi, per aver utilizzato – a detta di alcuni – i social in maniera errata, ma non solo, oltre ad aver ricevuto critiche e commenti negativi, tra questi in risposta alla sua apertura nel condividere il suo stato d’animo un commento poco delicato e rispettoso da parte di un uomo che le ha scritto “poi non lamentarti se ti stuprano, è normale, sei andata là”, a Diletta è stato anche detto che si era appropriata di una causa che non era sua. Ma non è così, e noi lo sappiamo bene. Quella di Diletta è una lotta che dovrebbe riguardare tutti, perché al contrario di quanto si possa pensare, non ci sfiora soltanto, ma ci attraversa ogni giorno. Il cibo di cui ci nutriamo ogni giorno è sporco – dice Diletta. Made in Italy is made of blood, è questa l’essenza del messaggio che vuole portare all’attenzione della gente e, la scelta di fare leva sul disgusto, associando la bandiera italiana al cibo e al sangue, è un invito a fermarsi a riflettere perché qualcosa, evidentemente, non va. Informare è la sua missione, perché se ci si soffermasse un attimo realmente a pensare al valore di una vita umana, ci si ricorderebbe che non è giusto che i braccianti, gente povera di tutte le nazionalità, vengono sfruttati per portare il cibo a basso prezzo nei supermercati e poi, come già detto sopra, sulle nostre tavole. Cibo sporco di sangue, perché i braccianti, italiani e stranieri, in quelle campagne ci muoiono e sicuramente, quando riescono a sopravvivere, non lo fanno in maniera dignitosa. Diletta non generalizza parlando solo di braccianti, perché si tratta, come già detto, di uomini e donne, italiani e stranieri.  A morire sono soprattutto le donne italiane, secondo i dati infatti vi è una maggioranza italiana tra i braccianti. La differenza – spiega la stessa Diletta in un’intervista – è prima di tutto fisica: tutti devono raccogliere cibo per 12 ore a 40 gradi, senza né acqua, né pause, ma un giovane nigeriano alto due metri resisterà di più di una cinquantenne italiana, nonostante la violenza e lo sfruttamento siano inauditi per entrambi.  E’ proprio di qualche giorno fa infatti la notizia del rapporto dell’Onu in cui si punta il dito contro il sistema alimentare italiano, accusato, secondo l’esperta in diritti umani delle Nazioni Unite Hilal Elver, di sfruttare i braccianti.  L’esperta Onu dichiara infatti che non è accettabile quanto accade in Italia, sia a nord, sia a sud. Parliamo di un paese sviluppato, terza economia in Europa in cui però i livelli di povertà e sicurezza alimentare risultano pericolosamente scarsi. I diritti umani dei braccianti non vengono difesi neanche dalla legge 199 del 2016 la quale prevede l’esistenza del reato di sfruttamento del lavoro e suppone dunque che ci siano controlli per evitare che i braccianti vengano sfruttati e tenuti in costante condizione di invisibilità e paura. I caporali inoltre, secondo Diletta, sono solo una parte di un sistema più ampio che parte invece dalle aziende e dalla grande distribuzione. Scuotere le coscienze è dunque utile per ricordare che si può fare qualcosa. Per esempio, oltre ad informarsi, a conoscere il fenomeno e a parlarne, si può comprare senza sporcarsi le mani di sangue attraverso il consumo critico, locale e solidale. Diletta ne parla sul suo profilo Instagram – che vi invitiamo a seguire – mappando negozi, ma anche aziende agricole e sociali, botteghe, gruppi di acquisto biologico e solidale o piattaforme che mettono direttamente in contatto produttori e consumatori abbattendo quel ponte tra criminalità, braccianti e venditori. Ce ne sono addirittura quattro nella nostra regione, tra questi ne mappa uno nello specifico a Putignano, si chiama Alchimia. La battaglia di Diletta nasce dalla necessità di capire, ma anche dalla volontà di poter essere utile per poter cambiare lo stato delle cose. “L’invisibilità dei braccianti viene dal fatto che sono lavoratori. Anche se sono migranti non sono interessanti perché lavorano come schiavi e sono importantissimi per l’economia italiana. Non saranno mai rimpatriati o cose del genere. Piuttosto vengono spostati da un posto all’altro per far vedere che la situazione si sta risolvendo. Il fatto che non si parli dello sfruttamento dei braccianti è un difetto di quella che dovrebbe essere la sinistra italiana e quindi occuparsi di queste questioni. Impostano il discorso migranti giustificandosi sul perché dobbiamo accoglierli. Dobbiamo accogliere migranti perché ce lo dicono le leggi. Il problema vero che bisogna affrontare è perché gli italiani vivono la presenza dello straniero come una minaccia: non c’è integrazione sociale. Ai grandi giornali non interessa” – ha raccontato Diletta, sempre in un’intervista. Il potere di cambiare le cose è nelle nostre mani, così è sempre stato, è solo che ci insegnano a credere che non sia così. Bisogna farsi delle domande, in questo caso, per esempio: da dove viene il cibo che è sulla mia tavola oggi? Il consumo critico è una risposta, così come è una risposta anche il pensiero critico, ovvero informarsi, da più fonti, ricordandoci sempre che niente di quello che accade non ci riguarda, anzi, come detto più su, ci attraversa: prima attraversa le strade d’Italia, delle nostre regioni o dei paesi in cui viviamo, poi i nostri corpi. Intanto però ci sono esseri umani che vengono sfruttati e che, a causa di un sistema cieco ai diritti, ma anche di un’inconsapevolezza generalizzata, perdono per sempre la possibilità di vivere.