La stazione, alle sette del mattino, il sabato, era di un vuoto allucinante. C’erano solo le telecamere a scrutare gli occhi e i corpi stanchi, e chissà se sapevano vedere anche oltre, tipo le cicatrici o i pensieri dell’animo. Non c’era nessuno, proprio nessuno. Era tipo uno specchio infinito, come quella giostra che montavano sempre alla festa di paese, il labirinto. E ci credevi davvero al vuoto che ti si presentava davanti, invece finiva che ne uscivi leso, con la fronte gonfia perché continuavi ad andare per la tua strada sicuro, scontrandoti contro te stesso ad ogni passo e più ne facevi, più ti prendeva male. Ed è lì, in quei momenti spensierati che la vita ti stava dicendo qualcosa, qualcosa tipo “è così che andrà, ti fiderai di te stesso, andrai sicuro, ti farai male, ti farai male emmezzo, però prima o poi troverai la strada giusta”. Poi alla fine, tutto sto discorso, non c’entra niente con le telecamere e il vuoto della stazione, però chissà come sarebbe se potessero guardarti dentro, se tutti potessero guardare oltre quello che riflettono gli occhi, per scavare, conoscere realmente i mondi altrui, gli animi. Forse, forse, ci tratteremmo di più da esseri umani.