Ripetilo a te stessa piano, poi forte. Piano, forte: come una bambina impaurita che si dondola compulsivamente nel letto cantandosi una ninna nanna, senza farsi sentire. Perché lei ha coraggio da vendere, lei non ha paura. E invece non c’è niente di sbagliato nell’avere paura, proprio niente. Vorrei scrivere qualcosa di più bello, ma, non ho scritto più un verso, non ho più scritto neanche una poesia da quando sei andata via, malinconia. Da quando è andato via tutto quel male di vivere che appartiene alla mia anima, al mio corpo, ai miei giorni. Mi sto sforzando, mi sforzo sul serio. Leggo i vecchi appunti, i vecchi spunti, le mie vecchie canzoni e mi chiedo dove sia finita io. Dove sto, in mezzo a tutto questo, dove sono andata a finire? Nessuna ispirazione, solo silenzio, silenzio e insicurezza che mi rendono fragile e più facile agli errori. Errori e silenzi che fanno paura. Allora prendo una parola, una a caso, una che mi piace e provo a scrivere qualcosa. Poi guardo un immagine, una scena, una cosa qualsiasi e ancora, niente. Empty Spaces: come il nome della pagina che avevo creato anni fa, per nascondermi, perché mica ce l’avevo il coraggio per dire ai lettori “Sono Francesca Emilio, leggetemi, ascoltatemi, questa sono io, prendere o lasciare”. Ma io sono fatta di questo, sono fatta di tutto, sono fatta di niente. Sono un contenitore pieno di idee pronto a scoppiare, sono un gomitolo di lana a più colori difficile da sbrogliare, sono un casino dopo l’altro, sono una ferita da rimarginare, una crepa da riempire e sono anche un muro indefinito di costellazioni senza nome che un giorno brilla e l’altro fa di tutto per essere invisibile. Illumina l’oscurità, continuo a ripetermelo perché non è che abbia perso le parole, non è che abbia perso la voce, è tutto li, è tutto dentro di me. Appartengono ancora me, sono parte di me, ma ho smesso di vederle, ho smesso di sentirle, di ascoltarle, di tentarle, ho smesso di improvvisarle, di essere funambola, di star sospesa senza paura di cadere.  E’ bello stare sospesi, lo è per me. E’ bello librare libera con le ali imperfette per imparare ogni giorno a volare e, ogni giorno, provare l’ebbrezza del volo per tramutare la caduta in un viaggio a mezz’aria. Andare su, più su, per poi tornare giù, più giù e credere di non sentire niente mentre stai sentendo tutto.  Non so vedere se c’è troppa luce, non so vedere se c’è troppo buio. Buio e luce sono connessi. Uno fa luce nei miei giorni, l’altro fa buio nei miei giorni. Ed è da folli, da folli, sentire la mancanza della malinconia, così tanto, così tanto da non riuscire a vedere niente, nemmeno una parola, eppure so che sono li, io lo so, sono li sospese in questa stanza colma di luce, mi stanno aspettando. E non è che io non lo sappia vedere comunque il buio, lo vedo, è intorno a me, è ovunque. E’ negli occhi dei passanti, nelle strade vuote, nella mia città quando piove, nella voce di chi ha parlato troppo ed è stanco, nella voce forte di chi è stato zitto per troppo tempo, nel racconto di un’anziana signora che con fierezza mi parla del fatto che non si siede mai sul bus, e resiste alla mia gentilezza, resiste perché è forte, perché “ne ha viste tante”, negli occhi sofferenti dei cavalli disturbati dal rumore di tutti questi mezzi di trasporto a motore. Il buio dicevo, è ovunque e io so vederlo, lo vedo fin troppo bene. E’ la luce che mi fa paura perché lo so che, quando è così tanta, non è mai vera, mai fino in fondo.  Ed io ho bisogno di entrambe per stare in equilibrio, ho bisogno di entrambe per sostare a mezz’aria.

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